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Cuor di leone

15 aprile 2020

Nick Mason and Jason Barlow

Sir Stirling Moss è stato uno dei più grandi piloti automobilistici. Nonostante 16 vittorie in Formula 1 non divenne mai Campione del Mondo. Ma trionfò in tutte le corse più importanti, molte volte alla guida di una Ferrari. Moss è mancato recentemente, all'età di 90 anni. Abbiamo deciso di ricordare la vita e la straordinaria carriera del pilota inglese ripubblicando u'intervista esclusiva dal numero 5 del The Official Ferrari Magazine, tenutasi nel 2009


Sir Stirling Moss incarna tutto ciò che amo delle auto e delle corse. Come pilota è stato senza dubbio uno dei migliori che lo sport ci abbia mai dato, ma gode anche della meritata fama di grandissimo sportivo.

Ma questo è solo l’inizio. Quando Sir Stirling non vinceva in una delle mie auto preferite, passava all’attacco superandole. È difficile sentire il suo nome senza richiamare alla mente un’icona, dalla Ferrari 250 SWB del famoso colore blu di Rob Walker, alla Lotus 18 che taglia il traguardo prima delle Ferrari a Monaco nel 1961 e ovviamente la leggendaria impresa con Denis Jenkinson, alla guida di una Mercedes 300 SLR fino alla vittoria della Mille Miglia del 1955, con un tempo che resterà imbattuto.

Ma per me c’è molto di più. È un po’ come per la musica che si scopre da adolescenti, quella che ti resta dentro per tutta la vita: Sir Stirling rimane la mia pietra di paragone di un mondo perduto che resta l’epoca più importante degli sport motoristici. E i simboli sono dappertutto nella mia libreria, appesi alle pareti, nelle vetrine dei modellini… ah, e ovviamente nel mio garage. Sir Stirling è stato un eroe della mia infanzia, rappresentava la nuova razza di piloti assolutamente professionale. Era il Lewis Hamilton o il Felipe Massa dei suoi tempi, ma in modo completamente diverso. La conversazione che abbiamo avuto a casa sua, nel cuore di Londra, a Mayfair, è stata illuminante e ha sottolineato molte differenze alle quali non avevo mai pensato. Ad esempio Lewis o Felipe corrono 17 gare all’anno e il resto del tempo si preparano a questi eventi allenandosi in palestra o lavorando al simulatore di Formula Uno.

Sir Stirling non aveva bisogno della palestra – correva tutti i fine settimana, sabato e domenica. E quando finiva la stagione in Europa, si spostavano tutti nelle Americhe per la stagione che iniziava là. Poi c’erano le gare delle berline, la Formula Due, la 24 Ore di Le Mans e la Mille Miglia, non si abbassava mai la guardia. Sentire Sir Stirling che descrive le stesse scene che io ricordo di aver visto da bambino, negli anni ’50, quando mio padre mi portava a Silverstone: ecco la mia idea di una mattinata perfetta. Ho perfino potuto fare tutte le domande che volevo sulle auto che adesso guido, con la scusa di carpire informazioni per la rivista.

Sarei riuscito ad ottenere dall’Obi-Wan Kenobi dei motori i segreti che mi avrebbero consentito di accumulare un vantaggio di due secondi a giro sui miei rivali, al volante della mia Maserati 250F? Avevo tentato questa strategia anche qualche anno fa, a bordo di una delle mie auto insieme a Roy Salvadori, durante una giornata di test della Goodwood. “Sì, di solito bloccavamo la ruota anteriore interna oltre il culmine del cordolo sopraelevato di Lavant e poi davamo potenza, un po’ come per le automobiline delle piste elettriche”. In verità speravo in qualcosa di più rassicurante…

Purtroppo la risposta di Sir Stirling è stata prevedibile – poco da regolare o mettere a punto, si tratta essenzialmente di stile di guida. Una volta sistemati i rapporti del cambio e le sospensioni bisogna giostrarsi con la pressione dei pneumatici. Niente magie al computer o gallerie del vento qui, solo un casco di sughero e un paio di guanti allacciati sul polso. E neanche troppo spazio per il logo degli sponsor. Abbiamo anche parlato un po’ di gusti, se sia più bello essere in testa alla gara o fare l’inseguitore. Purtroppo è apparso subito chiaro che in questo io e Sir Stirling veniamo da due pianeti diversi: lui rifletteva sul fatto che di solito, sbucando da una curva, controlla nello specchietto retrovisore la distanza che è riuscito a mettere tra sé e il primo che gli sta dietro; se la distanza è sempre la stessa, vuol dire che la macchina ha qualcosa che non va. Mi sembra di avere ancora parecchia strada da fare, prima di arrivare a questa forma mentis.

È ancora molto evidente l’entusiasmo di Sir Stirling per lo spirito di gruppo di quei tempi, è chiaro che si sente molto fortunato perché ha potuto gareggiare in un’epoca in cui l’aspetto sociale e del business delle gare automobilistiche erano totalmente diversi da ora. Le due ore che abbiamo passato a chiacchierare insieme sono volate, e per alcuni giorni dopo l’intervista mi sono continuati a venire in mente spunti che avrei voluto sviluppasse ulteriormente. Ma, soprattutto, abbiamo parlato del coraggio e di quanto fosse apparentemente intrepida quell'età dell’oro delle corse automobilistiche. Ed è proprio da lì, che abbiamo iniziato..

Nick Mason: Sir Stirling, si considerava coraggioso, allora?

Sir Stirling Moss: Se un pilota deve tirare in ballo il coraggio, allora vuol dire che ha sbagliato mestiere. Lo stress sarebbe immenso se ci fosse bisogno di coraggio per affrontare ogni curva.

Ferrari Magazine: Ma guardando al passato, è indubbio che di coraggio ce ne volesse, per correre negli anni ’50…

SM: A quei tempi chi gareggiava guardava spesso la morte in faccia. Non c’era modo di evitarlo. Una delle ragioni per cui avevo deciso di dedicarmi alle corse era proprio il pericolo. E pericoloso correre lo era davvero, perdevamo tre o quattro piloti ogni anno. Bisognava solo avere fiducia e credere che non sarebbe successo a te. Probabilmente era un atteggiamento stupido, ma altrimenti sarebbe stato impossibile conviverci: o ami il brivido e il rischio di quello che fai oppure no, e allora è meglio che ti metti a fare il bibliotecario, o il cuoco. Stuart Lewis-Evans [compagno di squadra di Sir Stirling alla Vanwall, morto in un incidente nel 1958] era velocissimo e anche molto coraggioso, ma il coraggio è spesso molto vicino alla stupidità, quando si è troppo coraggiosi si finisce per fare cose stupide.

NM: Ma avrà pur pensato al rischio.

SM: Tutti eravamo consapevoli dei pericoli che correvamo. Potevamo morire. Per me la gara più importante era sempre quella di quel giorno, perché potevo vincerla o morire cercando di arrivare primo. Non c’è nessun altro in macchina a tenere il piede sull’acceleratore, se ti tiri troppo indietro o guidi troppo piano non ti qualifichi, e questo ha un impatto sulla tua reputazione e sul tuo orgoglio Era proprio una mentalità diversa. Per me quello che contava era il rispetto degli altri piloti, e che quando uscivano le classifiche di qualificazione, io fossi il primo.

NM: Si può fare un confronto con i piloti di oggi?

SM: Si può tentare, ma alla fine sono solo parole. Sono coraggiosi i piloti di oggi? [Esita] Guardi, per me un uomo coraggioso è quel pilota della Mercedes che si è ribaltato all’indietro [Peter Dumbreck, la cui Mercedes CLR-1M si ribaltò sopra la Mulsanne a circa 300 chilometri all’ora durante i giri di prova di Le Mans, nel 1999]. Ecco, per rimettersi a guidare quell’auto ci vuole del coraggio… E anche quell’altro, Robert Kubica, quello che ha fatto un incidente tremendo [al Gran Premio del Canada, nel 2007]…

FM: Quindi, in altre parole, essere coraggiosi vuole dire rialzarsi, togliersi la polvere di dosso e dire “OK, adesso riprendo esattamente da dove ero prima, prima di avere un grosso incidente”.

SM: Sì, bisogna fare così. Nella vita ho fatto delle cose che a guardarle da fuori uno poteva dire: “Mamma mia, che coraggio”, ma io so che dentro di me non l’ho fatto come gesto deliberatamente coraggioso. Voglio dire che sì, magari sono stato coraggioso a correre in Argentina con le gomme praticamente sfilacciate che avevano iniziato a sfaldarsi, ma in quel momento l’adrenalina che avevo in corpo, il fatto che ero in testa… Non era il coraggio a farmi correre. Io credo anzi che il coraggio, nelle corse, sia quasi un ostacolo. Essere troppo coraggiosi non è una cosa positiva.

FM: Mi ricordo di aver guardato Kimi Räikkönen durante le qualifiche per il Gran Premio del Belgio, qualche anno fa, con il piede spinto a fondo sull’acceleratore a Eau Rouge anche se la sommità era avvolta nel fumo dell’olio. Avrebbe potuto tirarsi indietro ma non l’ha fatto. E io non riuscivo a capire se stava facendo una cosa straordinaria o estremamente stupida.

SM: Be’, in realtà a Eau Rouge non si vede comunque mai un gran che. Mi piace pensare che se mi ci fossi trovato io, in quella situazione, mi sarei tirato indietro. Auto-conservazione. Ai miei tempi l’auto-conservazione era molto importante. Non credo che ora lo sia altrettanto.

NM: Soprattutto perché i piloti di Formula Uno di oggi, anche se sbagliano, non rischiano di farsi poi troppo male.

SM: È incredibile il livello che hanno raggiunto le auto in Formula Uno. Incredibile, non c’è altra parola. L’unico modo di lasciarci la pelle in Formula Uno oggi è se a qualcuno si stacca una ruota e ti colpisce alla testa o cose del genere. Non credo sia davvero possibile morire, a meno che uno non decida di andarsi a schiantare contro un muro, ma non credo sia una questione di velocità. Questo naturalmente è fantastico, però cambia molto le carte in tavola.

FM: Quindi ci sta dicendo che sentiva l’eco della morte ogni volta che entrava o usciva dalla sua auto.

SM: Sì, ci pensavo un po’ di più.

FM: Ora ci sono tutti questi sport a forte componente adrenalinica, gente che fa Bungee Jumping e Base Jumpinge e cose del genere.

SM: Sì, e non mi interessano per niente. Non mi piacerebbe lanciarmi da un aereo con il paracadute, a meno che non fosse una questione di vita o di morte. [Esita un attimo]. Non lo considererei un fine settimana divertente.

NM: Si tratta di prendere decisioni ragionate. Una decisione ragionata che, con la terminologia moderna, si potrebbe definire valutazione del rischio, e anche sensibilità nei confronti della vettura, che mi sembra essere una delle cose che le corse automobilistiche di oggi hanno in comune con l’era precedente. Michael Schumacher e Sir Stirling hanno entrambi questa inafferrabile capacità di sentire di cosa è capace un’auto. Ed è questa la caratteristica straordinaria dei grandi piloti.

SM: Bisogna essere capaci di parlare la lingua di un’auto, e questo senz’altro fa la differenza tra un pilota e l’altro. Alcuni piloti riescono a parlare alle auto. Io lo sapevo fare, e capivo abbastanza facilmente quel che volevano dirmi, ho guidato molte macchine diverse e sono diventato molto bravo in questo. [Esita] Sa, la cosa più difficile nelle gare automobilistiche non è andare veloce, è frenare. Lewis Hamilton, per esempio, è straordinario con i freni. Ora ho una Osca, con cui corro, è una bella macchina, assai stabile. Ma la cosa migliore è che frena a fondo senza problemi di tenuta. Ci sono auto che tengono molto meno di altre.

NM: Non c’è dubbio che l’elemento di pericolo puro che Lei doveva affrontare ai suoi tempi adesso si è molto stemperato.

SM: [Fa una pausa] Essere sulla linea di partenza di un circuito come quello di Spa, che mi ha sempre fatto molta paura, e sapere che se fai un errore è probabile ti costi la vita beh, è diverso da quello che si prova oggi, credo. Insomma, avevo una paura folle della morte, non volevo morire, non avevo nessuna pulsione in quel senso. Pensavo che avrei guidato alla velocità massima che mi permetteva di sentirmi sicuro, questo era il mio limite e l’ho sempre rispettato. Ora, le cose possono cambiare quel limite, ad esempio fai una curva e ci trovi dell’olio. Ovviamente tu sei sicuro all’interno del tuo limite, fino a che non fai la curva e trovi l’olio maledetto. A quel punto sei veramente nei guai, come se una ruota si stacca o se qualcuno ti taglia la strada. Ci sono tanti possibili elementi diversi, ed è una prospettiva abbastanza scoraggiante. Quando è morto Peter Collins andava a quanto, 60 o 70 miglia all’ora [95-115 chilometri all’ora]… è stato così assurdo. Anche se, lo ripeto, la mentalità era molto diversa.

FM: Ma di questo abbiamo parlato e Lei è stato molto critico rispetto ai cambiamenti introdotti nel campo della sicurezza.

SM: È una cosa difficile da dire, perché non mi piaceva affatto vedere morire la gente. E ho perso molti amici. Ma detto questo, volevo che le corse continuassero ad essere pericolose perché penso che il pericolo sia un ingrediente molto importante. È un po’ come cucinare senza sale: magari mangi bene però, insomma, con il sale è tutta un’altra cosa. È difficile sostenere un’idea come questa, perché si invoca il pericolo. Credo che dal mio punto di vista, puramente personale, si trattasse però ovviamente di un elemento essenziale per l’eccitazione e il brivido. Insomma, da giovani si fanno cose da pazzi, e una delle ragioni per cui amavo correre era proprio il pericolo.

FM: Nick Lei ha fatto tantissime gare, ha corso addirittura cinque volte la 24 Ore di Le Mans. Com’era, per Lei, il momento della partenza?

NM: Se dovessi dirlo io… fantastico ma allo stesso tempo agghiacciante.

SM: Una cosa non esclude l’altra, no?

NM: La cosa più seccante del mondo è quando sei sulla griglia di partenza e qualcuno viene lì, ti da una pacca sul casco e ti dice: “Buon divertimento!” E io penso “Divertimento? Ma che cavolo di divertimento! Non c’è niente da divertirsi, voglio andare a casa!”. Anche se, ovviamente, lo stato d’animo cambia rapidissimamente, soprattutto quando poi sei in pista.

SM: Una volta abbassata la bandiera, cambia tutto.

NM: Sir Stirling, cosa ricorda della famosa Ferrari 250 GT con la quale ha ottenuto tanti successi? L’immagine più famosa è quella della macchina di Rob Walker, con la striscia sul cofano.

SM: Già. Pensi che è appena stata restaurata, ci sono voluti 18 mesi, in fabbrica. Era un’auto fantastica. [Fa una pausa] C’era perfino la radio! Quando la accendevo sentivo i commenti alla gara di Raymond Baxter e sapevo dov’erano gli altri. A quell’epoca il casco era molto semplice e non si usavano i tappi per le orecchie, quindi potevo seguire benissimo. Mi piacevano da morire le auto da corsa. E poi ovviamente c’erano quelle fantastiche partenze a Le Mans. Lì andavo come una scheggia.

NM: Eh sì, mi sono sempre chiesto com’erano, che sensazione si provava?

SM: Ah di grande divertimento. Mi ricordo una gara in cui c’era anche Mike Hawthorn, che partì prima che abbassassero la bandiera. Gli urlai “Hawthorn, sei un bastardo!” e lui scoppiò a ridere. Erano partenze importanti – se riuscivi a partire tra i primi nessuno ti avrebbe urtato, ma se ti ritrovavi un po’ più indietro e un cretino faceva qualcosa di sbagliato capitavi come niente nel bel mezzo di un incidente. Quindi lo scatto iniziale era fondamentale.

NM: Dunque Lei era uno di quelli che faceva lo scatto? Aveva una preparazione specifica per saltare nell’auto? Il motore era già acceso, la marcia era già ingranata?

SM: La lasciavo accesa e con la marcia innestata, se ben ricordo. Ma le avevo provate tutte, anche a mettere il pulsante dello start sotto l’alettone anteriore. Provavo la partenza 30, 40, 50 volte. Beh sì, avevo un bello scatto, facevo i 100 metri in 10 secondi, che per i miei tempi era una bella velocità.

NM: Però, qualificarsi con uno scatto di corsa… fa parte di quel mondo in cui si diceva “Signori, potete avviare i motori” no? È bellissimo guardare le vecchie foto d’archivio con le macchine allineate, sono fantastiche, ma è anche molto pericoloso, adesso non potrebbe più esserci una cosa simile.

SM: Con tutte quelle imbragature e quelle cinghie…

FM: Quali pensa fossero i pregi della Ferrari 250 GT, tanto che ancora viene tenuta in così alta considerazione, a distanza di quasi 50 anni?

SM: Era fatta benissimo. Vede, gli italiani hanno un certo tocco, riescono a dare alle auto qualcosa di favoloso. Mi ricordo la Fiat 1100, nel 1952, un’auto sensazionale, con una guida incredibilmente fluida per una macchina così piccola, comune. Ma penso anche alla Lancia Aurelia e all’Aprilia. Le auto italiane avevano quel gusto, e se parliamo della Ferrari GTO e della SWB… ecco, erano veramente l’apice.

FM: E il suo rapporto con Enzo Ferrari? Un po’ turbolento?

SM: Be’, abbiamo rimediato.

FM: Allora ce lo racconti.

SM: Con lui ci ho proprio litigato, perché mi aveva invitato a guidare la nuova quattro cilindri, a Bari. Ci sono andato e quando ero lì mi fanno: “Ci dispiace, ma la guiderà Taruffi” e questo mi ha fatto andare veramente su tutte le furie. Ho detto: “Io non corro per uno di cui non mi posso fidare”. E non l’ho più fatto, fino a che… la tragedia dal mio punto di vista è che se fossero riusciti a fare arrivare la mia macchina a Goodwood, quando ho avuto l’incidente, non credo che l’avrei avuto, l’incidente. Ma non era ancora perfetta. E avrei poi corso per la Ferrari nel 1962.

FM: Ferrari ha tentato di corteggiarla?

SM: Intorno al 1960 voleva che entrassi nella squadra, sì. Non mi ricordo esattamente quando, ho rifiutato perché in quel periodo ero con Rob Walker. Poi sono andato a trovarlo alla fine del 1961. All’epoca facevano una certa fatica, le auto inglesi erano in ascesa.

SM: La Ferrari era in ritardo sulla rivoluzione del motore centrale. C’è una famosa frase di Enzo Ferrari: “Non ho mai visto il carretto tirare il bue”.

SM: Insomma, facemmo pace, pranzammo insieme e mi disse: “Tu mi dici l’auto che vuoi, io te la costruisco – correrai per me?” Gli risposi: “No, però mi piacerebbe guidare le tue auto. Dovranno essere del blu di Rob Walker, tu potrai occupartene come vorrai e io le guiderò”. Perché davvero lo desideravo, volevo contribuire al rilancio della Ferrari, come ha poi fatto Michael Schumacher negli anni ‘90. Mi ha detto “Ok”, tutto era organizzato. Avrei avuto un’auto sportiva e un’auto da Formula Uno, lui le avrebbe gestite e avevamo tutto quel che volevamo, saremmo stati come una specie di estensione della Scuderia, in realtà. È stata una sfortuna, veramente una disgrazia che non sia riuscito a fare le cose in tempo [Moss ebbe l’incidente che pose fine alla sua carriera correndo a Goodwood nel 1962, andò in coma e ci rimase, parzialmente paralizzato, per molti mesi].

FM: Che ricordi ha, adesso, di Enzo Ferrari?

SM: Avevo per lui una grande ammirazione. Non ricordo di nessun pilota che sia morto per un problema alle sue auto. Le ruote delle Ferrari non si staccano mai! Ho sempre avuto grande rispetto per l’uomo e per quello che ha realizzato.

FM: Le piacerebbe correre adesso, se fosse il suo momento?

SM: Oh non farei cambio con l’epoca che ho vissuto io, no, Dio, proprio no. Non c’è confronto. Intanto non c’era tutto quel circo che c’è adesso. La vita privata era… Io dovevo solo andare lì e guidare, allenarmi e correre, tutto qua, nient’altro. La qualità della vita ora è molto più bassa rispetto a quella che avevo ai miei tempi, al divertimento di gareggiare, immenso, ma anche nella vita sociale.

NM: È interessante quello che dice. Credo che anche se Lewis e Kimi sono piloti da gara, se ù si chiedesse loro cosa preferiscono, passare la giornata in palestra o correre 50 volte all’anno…

FM: Credo che sappiamo la risposta che darebbero.

SM: Ah, ne sono certo. E comunque, so perfettamente che se entrassero in una macchina come quelle con cui correvo io, direbbero “Dio, ma com’era possibile gareggiare con una cosa così!” I piloti moderni, quando entrano nelle nostre macchine non riescono mai a capacitarsi di quanto sono terribili – niente cinture di sicurezza, un tipo di guida totalmente diverso e freni impossibili, per i parametri di oggi… Ma quella era vita. La mia vita nelle corse è stata fantastica, i posti in cui sono stato, le donne che ho conosciuto. Mi ricordo per esempio che stavo andando a Sebring e sul volo che mi portava lì ero riuscito a conoscere questa ragazza, che lavorava per la National Airlines. Le dissi: “Dai, vieni con me, che ti faccio vedere le tribune…”.

FM: Gliele ha poi fatte vedere? E soprattutto, siamo sicuri che le abbia fatto vedere solo quelle?

15 aprile, 2020